GIOVANNI MOSCA(IVAN) L'ARTISTA

(Parma, 14 gennaio 1915 – Roma, 2005)

Una delle poche foto dell'Artista.

Ivan Mosca è nato a Parma il 14 gennaio 1915. Vissuto fino all'età di ventun anni a Milano, ha frequentato la Scuola del Libro all'Umanitaria e, successivamente a Monza, la Reale Accademia delle Arti Figurative. Negli anni '30 è attratto dall'esperienza astratto-lineare degli artisti che lavoravano con la Galleria Il Milione come Soldati, Licini, Rho e Radice il cui linguaggio è volto alla restituzione in termini pittorici e materici di realtà trascendenti. All'indomani della fine dell'ultimo conflitto, l'artista elabora i termini di una personale visione pittorica dove l'espressionismo - comune matrice storica di molti artisti della sua generazione - sembra stemperarsi, liberandosi delle sue terminologie più esasperate, nell'uso di una sintassi poetica lirica e soggettiva coniugata con l'impiego di un impianto realistico-figurativo. I lavori degli anni '40, come le opere esposte nella personale alla Galleria Sant'Agostino (1947) o alla Galleria del Secolo (1949), costituiscono una personale e personalizzata riflessione sulle potenzialità evocative di un linguaggio metaforico ed ultraterreno che apre a visioni su mondi interiori, geograficamente lontani, oniricamente universali. Lontano, nello spirito così come nel carattere, dalle dispute polemiche riconducibili ad una tendenza che così fortemente hanno condizionato negli anni '40 il neo-espressionismo della Scuola Romana della seconda generazione, Mosca ha saputo compiere dalla metà degli anni Quaranta scelte ed imprese coraggiose, guardando oltre, spinto dalla curiosità e da una felice intraprendenza pittorica così distante da qualsiasi speculazione intellettuale o stilistica. Un universo in espansione che verrà attraversato con passo sicuro, senza remore o incertezze, come testimoniano gli ampi cicli pittorici e narrativi realizzati all'indomani del 1936, data del suo trasferimento a Roma. Lo sviluppo emotivo ed emozionale di un'immagine simbolica verrà interrotto nel 1943, anno della sua trasferimento in Francia. Ma la pesantezza e la drammaticità di questi eventi verranno, come dire, metabolizzati, riconvertiti in termini positivi e solari dalla sensibilità di quest'artista che, tenacemente e caparbiamente proprio negli anni dell'espatrio, riesce a riformulare l'apparizione di un mondo visualizzato in materia pittorica. Dal 1945, anno del suo definitivo rientro in patria, Ivan Mosca partecipa ad avvenimenti artistico-culturali di rilevanza internazionale come testimonia un fitto cammino esplorativo costituito da mostre personali e collettive realizzate in Italia ed all'estero. Quella di Ivan Mosca è una presenza anomala nel panorama dell'arte del suo tempo: la particolarità di alcuni suoi soggetti, il modo di esprimerli od abbandonarli repentinamente, sono i segni più evidenti di un' inclinazione dello spirito volubile e personale rischiarata dalla capacità di individuare temi e presupposti narrativi restituiti in visioni naturali colte in uno stato di sospensione onirica e visionaria. E la favola infinita di Ivan Mosca è dopotutto il racconto autobiografico di quell'insetto ribelle e caparbio che non si lascia catturare dalle maglie di un unico registro compositivo per poi fuggire poco più in là, dove l'astrazione e la materia lo consentono, dove è possibile vivere e ricordare nel tepore sommesso della pittura. Un insetto, per Ivan Mosca, non è mai uguale ad un altro dal momento che Ivan interessato agli occhi ed al cuore di quell'insetto così vicino al cuore di ognuno di noi. Spirito nomade ma non randagio quello di Ivan Mosca, l'astrazione pittorica che caratterizzerà i lavori nel decennio 1940/50 è la dimostrazione più evidente di un cammino faticoso, in salita, comunque segnato dalla curiosità per la scoperta di un mondo naturale in continua metamorfosi. Ed un'estrema versatilità - che dopotutto è soltanto capacità innata di praticare i differenti linguaggi dell'arte - caratterizza in questi anni i lavori di Ivan Mosca che catapultano l'osservatore all'interno di un'allegoria multipla del mondo naturale riassunto nel suono di una sola parola che è frammento, pura astrazione lineare e mentale che taglia come una ferita l'intero percorso pittorico del mondo, fino a far riemergere dalle ceneri dell'Araba fenice-astrazione l'ombra di un'iconografia del cuore che riaffiorerà nella pratica del disegno, della pittura, della grafica seguendo le tappe di un percorso evolutivo che sorpassa in velocità i confini dell'esperienza del Novecento. Negli anni '50 l'artista partecipa a grandi progetti espositivi esponendo vicino ad artisti come Giorgio Morandi, Massimo Campigli, Alberto Burri (v. la mostra "Eterna Primavera" , 1954) e Afro, Music, Gino Severini, Fausto Pirandello, Renzo Vespignani (v. la mostra "Trend in Contennporary Italian Art", San Francisco, 1955), fino ad arrivare alle grandi rassegne internazionali curate da Palma Bucarelli a Barcellona ("Exposicion de Peintura Italiana Contemporanea", 1955) dove Mosca esporrà i suoi lavori accanto a quelli dei grandi maestri dell'avanguardia storica (Umberto Boccioni, Luigi Russolo, Ottone Rosai, Carlo Carrà, Giorgio De Chirico, Scipione, Massimo Rosai, Andrea Savinio, Filippo De Pisis) o ai pionieri dell'astrazione italiana (Alberto Magnelli, Atanasio Soldati, Corrado Cagli, Giuseppe Caporossi, Antonimo Corpora, Giuseppe Santomaso, Toti Scialoja) o agli esponenti del tardo realismo (Renato Birolli, Giovanni Sadun). Nella seconda metà degli anni '40 datano una serie di importanti mostre realizzate sia in gallerie storiche (cfr. Il Cortile, Roma 1946-47; La Gregoriana, 1948) che in spazi istituzionali (Cama della Cultura, Roma 1945; Palazzo Venezia, Roma, 1947; Museo di Valle Giulia, 1948; Palazzo Torlonia, 1948; Palazzo delle Esposizioni (1953, 1955). Sempre in questo decennio Ivan Mosca partecipa attivamente alle esposizioni dell'Art Club (1947, 1949). Dagli anni '50 agli anni '90 Ivan Mosca è impegnato nella realizzazione di grandi mostre personali e collettive realizzate sia in Italia (Milano, 1948-49, 1962, 1966) che all'estero (Londra (1960, 1966,), New York (1960/63), Zurigo (1960), Filadelfia (1960-61), Washington (1955, 1958, 1961), San Francisco, (1954-55, 1959,), Sidney (1955), Chicago (1952/54), Los Angeles (1955, 1959), Stoccolma (1955), Tangeri (1954), Pittsburg (1961), Montreal (1963), Boston (1955-56, 1962)s Bogotà (1955) Praga (1949), Budapest (1949), Praga (1947), Parigi (1963), Palma di Maiorca (1965), Berna (1957) Milano (1957, 1966) stringendo sempre di più il rapporto con la terra e la cultura spagnola come testimoniano le numerose quanto significative presenze in spazi espositivi di rilevanza internazionale a Barcellona (1952s 1955-56, 1962, 1964-65, 1973, 1990), Santander (1957, 1965-66), Madrid (1951/53 1954), Saragozza (1952). Ma sicuramente il sodalizio più importante per l'artista è quello stabilito con la Galleria Il Secolo (1949) e con la Galleria L'Obelisco di Irene Brin e Gàsparo del Corso. A Roma la Galleria L'Obelisco è stata sicuramente un punto di riferimento per gli artisti che operavano nell'ultimo dopoguerra. Punto di incontro e confronto tra differenti linguaggi e generazioni dell'arte, luogo di accesi dibattiti artistico-culturali, la galleria è stata una sorta di trait-d'union tra l'arte statunitense e l'astrazione italiana. Sia nella sede romana che successivamente in quella di Washington, la galleria L'Obelisco è stata una vera e propria officina culturale con un progetto diversificato di scambi, transiti e relazioni tra Europa ed America. Nel decennio 1950/1960 Mosca esporrà a più riprese sia alla Galleria L'Obelisco (Roma, (1952/54, 1955s 1957, 1960-61) che all'Obelisk Gallery (Washington,1952-53, 1958, 1961). Tra la seconda metà degli anni '40 e '50, Ivan Mosca esporrà alla Quadriennale d'Arte di Roma (1948, 1955, 1957). Certo è che il gioco dell'ironia e dell'esplorazione del futuro resteranno per Ivan Mosca - bambino con il viso segnato da qualche ruga di gioia - quell'ombra silenziosa che lo ha accompagnato negli anni e che ancora lo condurrà attraverso le onde impetuose di un nuovo secolo che si delinea incerto sull'orizzonte instabile di ognuno di noi.

Di: Lidia Reghini di Pontremoli

 

La Fratellanza

Capita spesso che la maggior parte delle “organizzazioni spirituali” si faccia promotrice e perentoriamente stimoli il proprio affiliato ad esprimere in fretta quella che viene definita “fratellanza”.
Vi sono anche religioni il cui obbiettivo è quello, appunto, di promuovere la fratellanza universale mediante ciò che potremmo chiamare attivismo emotivo.
Quello della fratellanza non è un problema del presente, ma esso risale fino alla notte dei tempi. Le parole possono cambiare, ma il fondo rimane lo stesso.
Ora, tutto questo risponde a verità, e non si vuole di certo confutarle. Chi accetta la verità “una e senza secondo” non può che affermare l’unità della vita, l’amore unitivo e il suo corollario, a livello umano, la fratellanza.
Il problema, dunque, non investe l’affermazione in sé, ma riguarda un altro aspetto di non poca importanza: infatti, queste organizzazioni propongono generalmente tale problema in linea solo teorica, in termini esclusivamente semplicistici, con enfasi emotiva e, come prima si affermava, con un attivismo pressante da condizionare persino la libertà altrui. In altri termini, all’individuo si dice: fai il buono, devi considerare gli altri come tuoi fratelli, non devi far loro del male, ecc..
E queste frasi vengono elargite continuamente giorno dopo giorno, da millenni. Eppure, malgrado tutto il vociare, l’individuo di oggi - in quanto a “cuore” (sentimento) - non è che sia migliore di quello dei tempi di Cristo, dei Faraoni e giù di lì. Ciò è una constatazione ancora più evidente dell’altra che si è enunciata all’inizio. Certamente qualcosa non va o in chi dice queste cose o in chi le riceve o in entrambi. E questa non può non essere un’altra evidenza. Qualcuno può anche arrivare alla conclusione che l’idea di fratellanza non sussiste.
Eppure esiste.
E allora, perché la fratellanza non si attua malgrado venga proclamata, “reclamizzata” e gridata ai quattro venti da millenni?
Una tale verità - che in definitiva costituisce il riflesso di un principio universale - perché non prende corpo nel mondo del particolare e dell’individuale?
I motivi potrebbero essere questi:

1) Perché in chi l’afferma, essa rappresenta una parola vuota.
2) Perché spesso la mente di chi l’ascolta non è ricettiva né adeguatamente preparata.
3) Perché fin quando sussiste lo stato individuato (il “senso dell’io” contrapposto all’altro io) non vi è possibilità alcuna di poter esprimere verità che appartengono a un altro ordine e ad altre dimensioni dell’essere.
4) Perché le “forze negative” fanno di tutto perché questa verità si dimostri esclusivamente come un semplice e trito modo di dire propagandistico sentimentale.

Possono esserci altri motivi ma, per il momento, si prendano in considerazione questi quattro punti. Naturalmente essi sono interrelati.
Prima di tutto, occorre ribadire che, sul piano umano, l’istanza di fratellanza è un effetto di una causa la quale è di ordine principiale universale. Tale causa ha nome Amore. Un corollario dell’Amore è proprio quello di considerare l’altro come parte di sé, perché l’Amore fa comprendere e svela l’UNITA’ della vita. Si è gocce dello stesso oceano, figli dello stesso PADRE-MADRE universali. La Vita è unità indivisa, ma l’ “uomo decaduto” si è scisso da questo tutto indiviso e si è costituito come ente autonomo, indipendente, isolandosi nella solitudine e nel conflitto.
L’Amore, poi, si appoggia a un altro principio universale che è la Conoscenza-sapienza. L’Amore non guidato dalla Conoscenza-sapienza risulta una forza cieca, irrazionale: da qui le varie passioni umane che sono amore degenerato.
Ma la stessa Conoscenza non infusa dall’Amore diventa infruttuosa, priva di fuoco, di anima, di operatività. Si può dire che questi due princìpi rappresentano una moneta a due facce, per cui si ha Conoscenza d’Amore (Intelletto d’Amore) e Amore di Conoscenza (Amor intellectualis).
La fratellanza, nel campo umano, è frutto, quindi, della presa di consapevolezza della Verità universale. Laddove questa non c’è non può esserci effettiva espressione di Amore e quindi di fratellanza.
Colui che ama percorre una doppia linea, l’una - quella essenziale - è rivolta al “desiderio d’Amor divino”… «…cercando di dimostrare che la forza dell’amore non è altro se non quella che conduce l’anima dalla terra agli eccelsi fastigi del cielo, e che non si può arrivare alla somma beatitudine se non per la spinta del desiderio d’amore» (Platone, Simposio) e questa linea implica un ENTRARE IN SÉ, uno sprofondare nella propria Presenza, quale immagine sostanziale del divino. L’Amore può divenire autenticamente attivo in chi è permeato di questa immagine celeste.
L’altra [linea] - che è di ordine posteriore alla prima - è rivolta all’esterno; colui che ama perché POSSIEDE l’Amore, si protende fuori di sé, si volge all’altro per compenetrarlo e comprenderlo, avvolgendolo del proprio fuoco d’Amore.
Ma Amore - quello vero con lettera maiuscola - è desiderio di bene dell’Anima, perché è Amore intelligibile che opera nell’immanenza, e il bene che possiamo offrire all’Anima decaduta e in conflitto, all’Anima con le ali mozze, secondo l’espressione di Platone, è quella di indicarle la via della sua salvezza, della sua trascendenza, è quello di ridarle le ali per volare verso lo splendore del Bello divino.
Rimane ovvio che alcune cose, le quali appartengono al piano dei Princìpi, non possono essere “reclamizzate”, o ripetute come slogan commerciali, o imposte, per il semplice fatto che un Principio non è un “concetto”, una nozione o rappresentazione mentale da essere donata come un oggetto. Un Principio - e quello dell’Amore è un Principio - può essere solo COMPRESO, INTEGRATO, VISSUTO.
E tutto ciò richiede la morte dell’egotismo, dell’egoismo e del “concetto” del dualismo coscienziale. Ciò, a sua volta, implica perfetta Realizzazione; in altri termini, comporta la “morte iniziatica”. Ma morire all’individuazione non è per tutti, perché “molti sono i chiamati, pochi gli eletti”, per cui lungo il tempo ciò che si è dato all’individuo avido di sé stesso, e della propria separatività è stato proprio il “concetto” mentale sfumato di fratellanza.
Però i concetti non sono la realtà, sono solo semplici immagini mentali, apparenze che non producono niente; sono, in definitiva PAROLE CHE NON VIBRANO, perché la parola che proviene esclusivamente dalla mente empirica, è parola morta.
Le concettualizzazioni servono sul piano della quantità non sul piano della qualità, quella non può essere concettualizzata, ma REALIZZATA e VISSUTA.
Non si può concettualizzare la Conoscenza iniziatica, perché essa è Conoscenza d’Identità, per questo riveste carattere simbolico; non può essere concettualizzata la stessa Volontà di Bene, essa può essere solo evocata, realizzata, attuata. Certe cose di ordine iniziatico possono essere trasmesse solo operando mediante influsso, non tramite la concettualizzazione e, per di più, emotiva ed empatica.


Si sa, per evidenza, che il neofito, anche avanzato in campo mentale (anzi sono proprio questi neofiti), aumenta la sua sensibilità psichica per cui - essendoci ancora l’io, e non può non esserci - risulta essere molto reattivo. Diventa persino fanatico delle sue idee-concetti, del suo sentiero, della sua dottrina. E nel parlargli bisogna fare molta attenzione perché si offende facilmente e può diventare anche violento. Un grande Maestro ha detto che non c’è peggior egoista di un discepolo, non perché non sia attivo, ma perché vuole offrirsi agli altri per appagare il suo “CONCETTO” di verità, per gratificare la sua enfasi, le sue emozioni scomposte, il suo assolutismo, e questo comportamento risulta ancor più sollecitato da pseudo-istruttori fino a portare il poveretto all’alienazione.
Vi sono organizzazioni religiose che hanno imposto con la forza il messaggio dell’Amore-fratellanza, mettendo al bando, isolando e persino uccidendo. In verità, vi sono molti “dicitori” ma pochi “facitori”, secondo l’espressione di San Paolo, ed è per questo che mancando i veri operai le messi vanno in rovina.
La mente di chi ascolta, e poi la coscienza, spesso non recepisce il messaggio per due motivi:

1) perché questo, esprimendosi in termini di semplice rappresentazione mentale, non parte dal cuore, che solo sa comprendere, che intelligentemente sa donarsi, che armonicamente sa vibrare, e quindi non può penetrare a livelli profondi di coscienza.
2) Il neofito, non essendo totalmente pronto, deve essere in qualche modo preparato. E qui interviene l’atto dell’Insegnamento, che si palesi con un metodo o un altro ha poca importanza, purché risponda al “risveglio del cuore” del neofito.

Si è visto che il fiorire del Principio Amore implica la morte dell’io empirico separativo; ora, questo atto - bisogna ancora ribadire - non è per tutti. Non tutti sono qualificati (per quanto tutti lo siano potenzialmente) né disposti a comprendere e trascendere l’io empirico per ritrovarsi nell’io ontologico. Diremo ancora, non tutti vogliono o si sentono di amare veramente.
Molti discepoli guidati dal loro sentimentalismo emotivo proclamano a tutti indiscriminatamente, con la parola e la penna, questo principio di fratellanza riuscendo a stimolare semplicemente il fattore sentimentalistico, emotivo e quindi soggettivo egoistico degli aspiranti e di tutti coloro che si accostano - anche per curiosità, per tornaconto o compensazioni psicologiche - alle organizzazioni iniziatiche.
Ciò che si ottiene è quindi lo sviluppo di un sentimento prettamente soggettivo che opera nella sfera dello psicologico e che è caratterizzato dal dualismo attrattivo-repulsivo. Da qui il fanatismo e la passionalità unilaterale del neofito (la quale spesso si precipita a livello della sessualità).
Ma l’Amore - e quindi il suo effetto, la fratellanza - come si è visto, non è un concetto, né un sentimento soggettivo, è un Principio, è un’Idea, è una realtà ontologica che prescinde da ogni dualismo soggettivistico e da ogni concettualizzazione dianoetica.
Ogni essere umano “sente” a suo modo e non vi è uno che senta in un modo uguale a un altro.
Ma è certo che cose universali trasposte sul piano dello psicologico vengano snaturate, perché l’io empirico se ne appropria , e allora non si ha più, ad esempio, l’espressione dell’Amore, ma l’attuazione dell’amor di sé in quanto individualità separata e contrapposta. Al posto della realizzazione del Sé si ha invece, o si crede di avere, la realizzazione dell’io empirico (cosa, questa, impossibile nella manifestazione quaternaria).
E non vi sono le varie religioni che si contendono, a volte in termini non strettamente verbali, lo stesso Iddio di Amore e Conoscenza?
E non avviene che in alcuni gruppi esoterici, anche iniziatici, si individualizzi e si fanatizzi la Dottrina fino a contrapporsi ad altri gruppi?
Può capitare - e ciò non è raro - che un “gruppo spirituale” esoterico o persino iniziatico, costituisca “un composto egoico” di straordinaria potenza che può essere capace di tutto.
Per quanto si possano offrire all’individualità le cose più sacre e più belle, essa ne formula solo un “concetto”, poi s’illude di vivere la realtà che sta dietro il concetto.
«Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle ai porci, perché non le pestino con i loro piedi (e non zampe) e, rivoltandosi, vi sbranino» (Matt. VII,6).
E quando tale individualità, illusa di essere iniziata o di esprimere Amore e Conoscenza, viene stimolata in un certo modo, si offende, reagisce e diventa anche violenta.
Lo stato individuato, appartenendo all’ordine del divenire, esprime solo “avere” e non Essere, quindi aderisce a tutte quelle cose che possono essere possedute quantitativamente le quali, rappresentando semplici oggetti (concetti, sentimenti, istinti, ecc.), non sono, né possono essere.
Vi è ancora dell’altro, perché certe “forze negative” - che siano consce o inconsce ha poca importanza, generalmente, quelle consce si servono di quelle inconsce - operano proprio nell’ambito dello psichismo sentimentale laddove appunto si parla di fratellanza, di “conoscenza passionale”, di amore soggettivo egoico, di fare del “bene”, di voler redimere, a dir poco, tutta l’umanità per cui, stimolati adeguatamente, questi soggetti sono capaci di fare le crociate verbali, per iscritto o anche di fatto, violentando persino il libero arbitrio di ogni anima. E’ così che nascono le lotte, le contrapposizioni, le violenze tra i vari gruppi spirituali e in una stessa confraternita.


La fratellanza è solo un derivato del Principio dell’Amore; ma occorre comprendere che se non si attua prima di tutto la captazione di tale Principio, se non si segue, in altri termini, la linea verticale, quella orizzontale non può essere espressa. Laddove non c’è realizzazione non può esserci espressione, attualizzazione di qualcosa.
Eppure tante organizzazioni e gruppi spiritualistici non fanno altro che incitare i propri neofiti a fare del “bene”, a donarsi - in modo, si dice, disinteressato -, a non isolarsi, ma a vivere nel mondo e con il mondo dell’inconscio collettivo, perché badare a sé - dicono loro - è egoismo.
Ecco il rovescio della verità iniziatica.
Ecco la “forza negativa” come opera: costringere, o convincere, i veri neofiti a non interessarsi di sé, in modo che non possano operare alcuna introspezione, non possano conoscersi, non possano arricchirsi spiritualmente per evitare proprio di donarsi veramente e utilmente. Ma, si potrebbe dire, in che modo potrebbero donarsi, offrirsi se prima non hanno riempito le proprie bisacce? In che modo possono praticare la fratellanza se prima non hanno scoperto, con la “realizzazione” e con l’attualizzazione delle loro potenzialità, che cosa sia l’Amore e la fratellanza?
In che modo possono offrire l’Arte (iniziatica) se prima non vanno a scuola per impararla?
*
*    *

Laddove c’è ignoranza là c’è un potenziale canale per le “forze negative”.
Bisogna anche dire che oggi l’ “aura sociale” tende al raggruppamento, allo spirito di gregge, all’ammassamento, al condizionamento di gruppo, all’attivismo sociale, all’oggettivazione, per cui un individuo si sente già in conflitto se riesce a stare una mezza giornata in casa per documentarsi e prendere consapevolezza delle proprie incompiutezze, lacune, o del proprio imperituro Sé.
Però, le autentiche tradizioni iniziatiche sostengono che il fine dell’uomo è la conquista del “Sapere indefettibile”, attraverso gli stadi meditativi e contemplativi.
L’attivismo è un fenomeno prettamente profano e soprattutto dell’epoca recente, per cui anche le organizzazioni spirituali, purtroppo, soffrono di questa spinta dell’inconscio collettivo, ritardando così o impedendo addirittura, il conseguimento, ai loro aderenti, dello stato beatifico di totale armonia che l’uomo ha potenzialmente in sé. In definitiva, il problema di fondo non consiste in “che cosa fare”, ma in “che cosa essere”.
La ricerca spirituale non è un modo di “avere e ottenere” qualcosa (gratificazioni dal e del fare), ma un Modo di essere nel Semplice e nel Silenzio; e la più alta contemplazione è appunto quella che porta al Silenzio metafisico, il quale si dimostra anche come autentica creazione vivente (Plotino, Enneadi III, 8, III; Platone, Fedro; ecc.). L’agire riguarda l’individualità, la sfera dei rapporti interpersonali, nella quale si colloca il dualismo conflittuale.
«L’azione, pertanto, sussiste per virtù della contemplazione e della visione; tanto è vero che anche per coloro che agiscono, la finalità è la contemplazione: come se essi, impotenti a raggiungere qualcosa per via diretta, cerchino poi di conquistarla con un giro smarrito» (Plotino, Enneadi III, 8, VI).
Il vero e giusto agire nel mondo dell’individuale deve essere in accordo con i doveri morali e religiosi universali. Ma se non si ha la Visione universale - frutto di realizzazione (ossia la conoscenza della legge causale, degli elementi, delle entità) - in che modo si potrà giustamente agire?
L’attuale civiltà si è degradata completamente sul piano del fare e del produrre (dominio della quantità) riducendo l’uomo a semplice elemento tecnico-metallico-riduttivo; ciò che costituisce il trionfo della “prassi del materialismo” - sulla qualità - dell’Anima e dell’intelligibile, per quanto qua e là si possano avvertire segni di qualche ripensamento.
Ora, gli aspiranti alla pura Conoscenza dovrebbero fare attenzione a non essere coinvolti da questo attivismo quantistico e del “fare” esclusivamente sentimentale che impera nell’inconscio collettivo e che porta ineluttabilmente nella sfera delle apparenze e sempre più a dimenticarsi del Sé verso cui invece deve tendere il dovere primo e ultimo del nostro esistere.
L’Amore è un Principio universale, principiale che non tocca il mondo delle forme e dei composti, ma il mondo delle Anime, esso sta dietro alle apparenze per cui è frutto di ascesi e di realizzazione.
L’Amore implica unione: è anche sete ardente del Divino in noi. Esso è l’agente magico che ti consente di compiere e saturare le fasi dell’Opera. Ricorda che l’Amore muove e unifica le sostanze dell’Opus, mentre la Volontà dona forza concentrata e determinata, e l’Intelligenza direzione saggia [Vedi appunti sulle 12 fasi alchemiche e la realizzazione del 7° assioma (Amare)] e l’unione non può essere operata sul piano formale individuale: in questo ambito si può avere accoppiamento, si può avere simpatia emotiva, si può avere solidarietà e partecipazione sentimentale (tutte cose spazio-temporali), ma non unità perfetta che appartiene a una dimensione sovraindividuale, ed è di là dal tempo e dallo spazio. Solo chi si è unificato può com-prendere tutti gli altri (dentro di sé); ma per unificarsi occorre proprio uscire da quell’inconscio collettivo, fatto di individualità passionali, come bisogna uscire dallo stesso piano del sensibile. Solo quando si è riconquistata l’unità, e quindi la Conoscenza e l’Amore immortali, solo allora ci si può “immolare” nel mondo degli uomini e dell’inconscio collettivo. Tentare di risolvere i problemi dell’individuato è come voler svuotare gli oceani con un catino bucato. La problematica esistenziale individuata è duale e appartiene alla sfera del divenire e dell’impermanenza, quindi essa non può essere risolta. Eliminato un problema ne nascono altri due, risolti questi due ne appaiono altri ancora - e ciò è un’evidenza - studiando il mondo della individualità dal suo apparire su questo piano di vita. Si può concludere che il problema che nasce dall’individuato non può essere risolto, ma semplicemente trasceso e per trascenderlo occorre arrivare a quell’unificazione di sé a cui prima si è fatto cenno. Nel mondo dei Princìpi non vi sono problemi, perché vi sono solo verità da svelare.
I problemi nascono nel mondo del duale psicologico, del movimento dell’illusione o dell’ignoranza, del divenire, del desiderio e dell’irrequietezza del dubbio e della rinascita, non nel mondo dell’Essere. E per quanto si cerchi di armonizzare tale problematica, tuttavia, non si può dire di risolvere la problematica esistenziale del composto individuato, perché questo - in definitiva - può essere risolto solo con la sua… soluzione, con la sua morte (morte iniziatica) e anche con la vera che è la sola “iniziatica”.
Per attuare e svelare l’Amore unitivo, e di conseguenza la fratellanza nel campo umano, v’è un preciso sentiero realizzativo da percorrere e necessitano qualificazioni preliminari senza le quali di certo si va incontro al fallimento.
Quindi, sarebbe opportuno non avere istanze velleitarie premature di voler redimere l’intera umanità né di promuovere “catene affettive sentimentali” per aiutare individualità che ancora abbisognano del piano e delle esperienze del sensibile e per le quali esistono già istituti sociali che rispondono adeguatamente ai loro bisogni contingenti.
Non si può dare ciò che non si ha.
I più sperano di dare ciò che non hanno. I più sperano di dare senza possedere; l’io empirico vive e si perpetua nell’illusione.
Non cercare di “trasformare” gli altri. Trasforma te stesso. Solo la tua compiutezza rende “compiuto” lo spazio di vita che ti circonda.


da "www.montesion.it"

Torna su

Associazione Culturale Loggia Elia, certificata presso l’Agenzia delle Entrate di Velletri, C.F. 95034430587